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  • 18 Gennaio 2022

    Convivere con il virus e cosa bisogna cambiare

    Difficile oggi ridurre la malattia da SARS CoV-2 a semplice influenza quando in un mese causa gli stessi decessi che in media registriamo in un anno per quest’ultima, circa 8-10.000 morti.

    Sono tanti, troppi i 200-300 e oltre decessi al giorno di queste ultime settimane per poter già parlare di passaggio da pandemia a endemia (una malattia viene definita endemica quando si diffonde in una popolazione in modo costante nel tempo, senza presentare particolari picchi di frequenza). Perché se è vero, come in molti pensiamo, che il Coronavirus non scomparirà presto e completamente dalla faccia della terra, il vero problema è capire a quale livello di numeri di malattia, infezioni e decessi ci si attesterà, e quanto la situazione sarà gestibile, sia in termini sanitari che sociali e economici.

    Stiamo andando verso il picco di Omicron e, se non emergeranno nuove varianti, l’immunizzazione che deriverà dalla sua diffusione e dalla campagna vaccinale si accompagnerà a una decrescita dell’incidenza di nuove infezioni. Con l’arrivo della stagione calda la situazione migliorerà ulteriormente ma, anche se le previsioni sono ormai molto difficili da fare, è improbabile che con l’autunno di quest’anno la guerra sia vinta definitivamente e che si possa dimenticare per sempre il virus che ha sconvolto il mondo. Quello che però oggi stiamo registrando nei reparti ospedalieri è qualcosa di diverso dalle precedenti ondate: un terzo se non più di chi risulta positivo al SARS CoV-2 viene ricoverato per altri problemi di salute, una appendicite acuta, una colecistite, un braccio rotto o altro ancora, la sua positività al virus è del tutto incidentale. In medicina è noto che una cosa è l’infezione, un’altra la malattia conclamata che si manifesta quando uno o più organi sono colpiti direttamente. Nel prossimo futuro è probabile che avremo ricoverati molti soggetti con disturbi di salute di varia natura risultati positivi al SARS CoV-2 e una certa quota di malati che invece presenteranno le tipiche manifestazioni del Coronavirus con la polmonite, l’insufficienza respiratoria che ne deriva, ecc. Per questo diventa importante la distinzione epidemiologica, chiesta da molti, tra chi ha il virus come dato incidentale e è ricoverato per altre ragioni e chi invece è ospedalizzato per la vera e propria malattia virale. La sanità e soprattutto gli ospedali devono attrezzarsi per un nuovo scenario, nel quale poter gestire i pazienti con problemi chirurgici e internistici positivi al virus senza ritardarne diagnosi e terapie e senza rallentare le altre attività. In parallelo ci saranno reparti di malattie infettive, pneumologia, medicina interna, terapia intensiva, dedicati alla cura di chi ha la malattia causata da SARS CoV-2.

    Non è impossibile farlo anche se richiede un ripensamento delle nostre strutture ospedaliere ma in questi due anni abbiamo imparato molto: bisogna prevedere stanze a pressione negativa in tutti i reparti di degenza (è una modalità di ventilazione dell’aria che riduce il rischio infettivo e si usa già in molte situazioni, come quando si ricoverano pazienti con tubercolosi polmonare), studiare percorsi distinti “sporco e pulito”, fare lavorare le camere operatorie e i servizi (radiologie, endoscopie, ecc.) con slot di orari distinti per tipi di pazienti, e così via. Nel prossimo futuro dovremo immaginare ospedali architettonicamente studiati per far fronte a queste situazioni e che possano essere rapidamente convertiti, così come un po’ empiricamente abbiamo fatto nei mesi passati facendo spesso di necessità virtù. Altro tema caldo è la limitatezza delle risorse mediche e infermieristiche che non possono fare tutto e sdoppiarsi, anche in questo senso l’organizzazione delle attività assistenziali va ripensata con un forte rinforzo di nuovo personale amministrativo formato ad hoc, i sanitari devono occuparsi della cura dei malati, non di battere a macchina relazioni cliniche o inserire dati amministrativi in un pc.

    Ci troviamo di fronte a un cambio di paradigma, non possiamo più gestire la pandemia come abbiamo fatto in passato, dobbiamo trovare un modo ragionevole e sicuro di convivenza con il virus, sia dal punto di vista sanitario che sociale. Verrà un giorno, e quel giorno non è lontano, nel quale non sarà più necessario fare tamponi agli asintomatici, così come oggi non li effettuiamo a chi sospettiamo possa essere entrato in contatto con il virus influenzale. Non si tratta di nascondere i numeri, i dati sono fondamentali e la trasparenza deve essere assoluta, anche i semplici positivi oggi vanno tracciati (e per favore non parliamo di epidemiologia ansiogena!) ma prima o poi cambierà radicalmente lo scenario e si potrà passare a modalità diverse di sorveglianza, come utilizziamo medici sentinella per monitorare l’andamento epidemiologico dell’influenza. Con l’arrivo dei nuovi antivirali somministrabili a domicilio presto contiamo di potere gestire l’infezione nei vaccinati come un semplice raffreddore, ma dobbiamo ancora arrivarci. Anche il mondo del lavoro deve prepararsi a scenari di convivenza con il virus che potrebbero essere non brevi, è indispensabile arrivare a una gestione dei contatti e dei casi accertati che da un lato metta in sicurezza i lavoratori e dall’altra sia sostenibile socialmente e economicamente. In questo senso la sorveglianza sanitaria e la medicina del lavoro diventeranno sempre più cardinali per permettere lo svolgimento delle attività produttive.

    La storia di questi mesi ci ha insegnato che non siamo onnipotenti, per questo se anche vincessimo la guerra contro il Coronavirus non dovremo abbassare del tutto le armi ma continuare a pianificare il nostro futuro immaginando cosa potrebbe succedere di fronte a una nuova e inaspettata emergenza infettivologica, farsi trovare impreparati una seconda volta sarebbe imperdonabile.

    Corriere della Sera - Sergio Harari